22   

 

Quella mattina non aveva voglia di uscire e così chiamò il cameriere per farsi portare la colazione a letto. Si mise un altro guanciale dietro la schiena ed attese. Calcolò un dieci minuti per arrivare al bar e preparare tutto. Altri quattro per arrivare alla dependance e salire le scale fino al secondo piano. Come previsto Charles bussò alla porta esattamente quattordici minuti dopo che lei aveva riattaccato la cornetta del telefono e nel frattempo era già abbastanza sveglia da capire alla perfezione ciò che le disse dopo avergli appoggiato il vassoio in grembo e proprio un attimo prima di andarsene: m'oiselle, sa la cosa buffa? Il direttore mi ha appena accennato che è arrivato in albergo un uomo che porta il suo stesso cognome.

  Possibilissimo, niente da dire. Tuffò il cornetto alla crema nella tazza del latte dopo averlo zuccherato con tre cucchiaini e scrupolosamente girato. Strano però, forse anche un po' troppo. Quando era già a metà del cornetto e stava per assaggiare la crema si fermò improvvisamente. Non c'era neanche un minuto da perdere. La copertura che Henrì le aveva fornito doveva essere improvvisamente saltata. si alzò dal letto togliendosi immediatamente la camicia da notte e lasciandola come distrattamente fra le lenzuola gualcite, alla cameriera tutto doveva sembrare normale. Solo i jeans, una camicetta leggera, le sigarette, il portafogli con i documenti e scese lentamente le scale salutando tutti quelli che incontrava, pochi per fortuna, anzi solo il signore della camera accanto. Era ancora troppo presto perché gli altri ospiti dell'albergo, che solitamente facevano vita di mare, uscissero dalle loro stanze. Meglio così, sarebbe stato più facile distinguere qualcuno.

  Arrivata al piano terra escluse di passare dalla parte del giardino e si diresse invece verso l'ingresso, o anche l'uscita direbbero gli scettici, principale. Non le sarebbe davvero andato a genio questo n'sieu Luporini, ogni tanto le piaceva rifare il verso a Charles, non le sarebbe piaciuto incontrarlo fra i cespugli che formavano la macchia digradante verso il mare. Arrivata davanti alla hall si sforzò un attimo per non girarsi e sbirciare attraverso i vetri, poi voltò a sinistra prendendo decisamente la direzione di fuga ma senza naturalmente la velocità adeguata. Calme bisognava restare. Calme e far finta di niente.

  Nessuno la chiamò. Arrivò così all'uscita già sudata per la fatica psicologica e si diresse a destra, verso il centro città' Non prese un taxi perché i tassisti, come i baristi, hanno la memoria fotografica e così arrivò alla fermata dell'autobus, numero 14, destinazione Bevea.

  Sul marciapiede ad attendere insieme a lei c'erano una mamma con due bambini, un signore probabilmente in pensione che leggeva il giornale ed un ragazzo che portava i pattini a tracolla. No, non c'era da preoccuparsi, nessuno di loro aveva le caratteristiche adatte per essere un sicario. Poi però pensò che qualcuno poteva essere salito alla fermata precedente ed attenderla sull'autobus. Abbastanza improbabile però, visto che lì si fermavano diverse linee anche se, non era da escludere che non vedendola salire, lui, o lei, chissà, scendesse o che magari addirittura conoscesse con relativa approssimazione la sua destinazione e così quel nome lasciato all'albergo non sarebbe stato che l'inizio di una trappola.

 Passarono cinque minuti, dieci, e nessun autobus. Che vita di merda, Carla pensava, e tutto per uno schifoso articolo da paparazzi. Un momento, signorina, come si permette dl inserirsi in trame parallele e che con lei niente hanno a che fare? Già la vita è difficile, anche la nostra certo, e lei non mescoli ulteriormente le carte. Non può assolutamente, è risibile, trama evanescente, fornire a tutto questo la sola spiegazione di un articolo, che fra l'altro era di una rivista non di pettegolezzi, che magari può essere stato uno spunto ma non certo la determinazione assoluta del presente. Ognuno al suo posto per favore, non si confonda le idee e, soprattutto, non le confonda a noi. Ben fatto, dissero al bar, in certi momenti ci vuole polso.

 Ma erano già venti minuti che attendeva ed ancora niente.                  Peggio che a Rio no, perché là l'autobus era solo una proforma del Comune, ma i bambini erano già agitati ed il signore di mezza età aveva finito di leggere anche la pagina sportiva ed a Carla piacque pensare che stava attaccando con le quotazioni di borsa poiché l'umorismo è bene non perderlo in nessun caso.

 Allo scoccare della mezz'ora di attesa da lontano si vide una forma arancio che arrivava. Era proprio il numero 14. L'autobus arrivò alla fermata con lo stridio di freni caratteristico in ogni parte del mondo. I bambini si affrettarono pigolanti verso l'entrata, poi il signore, che aveva piegato il giornale e se l'era messo in tasca, infine lei, per ultima certo, ma con suo sollievo le porte della discesa non si erano neanche aperte. Vi erano così solo due possibilità: o quell'uomo era davvero troppo furbo oppure lei era al sicuro, almeno momentaneamente.

  Salita a bordo un rapido esame la convinse del tutto che non c'era niente da temere. I pochi posti occupati rispecchiavano infatti la tipologia umana con la quale lei aveva atteso l'arrivo dell'autobus: mamme, bambini, innocui, o almeno sperava, pensionati. Addirittura strano le parve che sulla vettura non vi fosse neanche un uomo di quell'indefinibile età che va dai quindici ai quaranta, e osò immaginare persino un pensiero divertente e cioè che non fosse l'ora adatta e che essi, stremati dai combattimenti notturni, se ne stessero ancora a letto.

  Si mise così seduta fra il signore di prima ed un nonno in abito blu che le sarebbe piaciuto scoprire in che luogo si stesse recando. Naturalmente la schiena rivolta all'esterno per controllare ogni cosa accadesse. Era momentaneamente al sicuro sì, ma non era certo una situazione da rendere allegri. Intanto l'autobus sfilava tra le periferie d'occidente, e pensare che sarebbe dovuto essere un sud, fra capannoni solitari e villette di stile indefinibile, negozi di sartoria, bowling dalle insegne spente ed infine bar del centro di Durban, e dov'altro, certo, vi ho considerati disattenti ed avete ragione a risentirvi, cambiamo quindi l'ultima frase che suonerà così: ed infine negozi di fiori ed armerie del centro.

  Cosa avrebbe detto ad Henrì, chissà poi perché qua vi siano così tanti francesi, oppure sono io che li incontro, ma non sia disattenta signorina, che mi distrae tutto l'uditorio: cosa gli avrebbe detto non lo sapeva neanche lei. Ancora non voleva ammettere che tutto il suo piano fosse saltato così miseramente. Va bene che è un pericolo cercare di procurare armi ai guerriglieri anti-apartheid, un rischio tangibile che neanche suo fratello avrebbe approvato, anche perché poi lei era figlia unica, non ci confonda le idee per favore, gliel'avevamo già detto, dunque una missione pericolosa certo, ma essere scoperti dopo solo pochi giorni e senza neanche aver combinato niente era proprio il colmo della sfortuna.

  Decise che ad Henrì avrebbe semplicemente riferito come stavano le cose. Che poi prendesse lui una decisione. E se poi non avesse potuto neanche essere rimpatriata, tanto peggio: forse il gioco non valeva la candela, non è un motto da rivoluzionari piccola, questa è farina del sacco di tua nonna, ma insomma anche se il gioco fosse stato superiore alle sue forze ed alla sua fortuna oramai era in ballo e doveva accettare tutto quello che accadeva; non certo da martire cattolica, no, ma in fondo la morte in ogni caso fa poca differenza. Su, bambina, non essere troppo pessimista che in fondo hai ancora da sentire ciò che ne dirà Henrì e, piuttosto, stai pronta a scendere che la prossima è la tua fermata.

  Fu l'unica a lasciare l'autobus e, almeno questo, la confortò. Per ora era tendenzialmente al riparo da rischi immediati. La città si svolgeva intorno a lei avvolta dall'intorpidimento della mattina poiché, anche se non lo si voleva ammettere, si era pur sempre a cavallo di un tropico. Carla imboccò subito la strada che conduceva all'appartamento di Henrì. Non era più il momento di usare precauzioni, poiché a questo punto la peggiore delle ipotesi era che la stessero aspettando, ed allora al diavolo tutto, se doveva essere arrestata che almeno accadesse mentre guardava davanti a sé.

Henrì abitava in un appartamento posto al secondo piano di un bel palazzo fine ottocento che sorgeva in una via poco frequentata. Le persiane di legno tradivano l'età della casa che forse non era mai stata restaurata, e pensare che a lei quelle fessure adesso facevano solo venire in mente la possibilità di appostarvisi con un fucile, lontani davvero i tempi nei quali da stecche oblique simili a quelle spiava l'arrivo del fidanzato di turno, ma allora era a Rio e adesso era proprio un'altra storia. Non doveva lasciarsi distrarre. Non era il momento. I fucili con il silenziatore esistevano realmente e Rio in ultima analisi era davvero soltanto un sogno.

  Arrivata davanti al portone non perse il vizio di guardarsi intorno prima di entrare. Solo passanti, almeno all'apparenza e, soprattutto, nessuna automobile ,parcheggiata in seconda fila con persone a bordo. Non suonò il campanello poiché aveva la chiave e si avviò per le scale. Giunta al pianerottolo del primo piano si mise ad ascoltare. Silenzio. Salì ancora una rampa di scale e udì delle note provenienti dall'appartamento di Henrì. Alcuni passi dopo distinse la melodia, era una canzone dei Cure, Disintegration. Chissà poi perché gli piaceva tanto, forse era il nome. Comunque adesso era tranquilla, se ci fosse stato pericolo immediato lui non sarebbe certo stato ad ascoltare musica e, soprattutto, quella musica che per loro era una specie di segnale di via libera assieme a tutto un repertorio di brani tanto complesso che davvero la polizia non l'avrebbe mai potuto scoprire.

  Bussò alla porta e dopo pochi secondi Henrì venne ad aprire. Era un uomo di statura normale ma di corporatura abbastanza robusta e gli si vedevano i muscoli anche sotto alla camicia da marinaio, stereotipo U.S. tanto per non dare nell'occhio o forse era solo vanità, lei non l'aveva mai capito. E molte altre cose sfuggivano a Carla di Henrì, come ad esempio quella sua eterna espressione felice ed all'apparenza priva di preoccupazioni; no, lei era davvero poco adatta a fare la rivoluzionaria, la paura le si leggeva negli occhi ed anche lui la notò subito.

Quasi neanche il tempo di entrare che gli disse tutto. Lui la fece accomodare sul divano e andò in cucina a preparare il caffè. Neanche una parola di commento. Lei non sapeva se essere contenta o terrorizzata. Intanto passavano i minuti ed Henrì era sempre in cucina a schiccherare. Tornò solo quando il caffè era già pronto e le appoggiò la sua tazzina sul tavolino che aveva davanti. Carla non la prese neanche per la paura che si notassero le sue mani che tremavano. Infine Henrì parlò. Sarebbe davvero un bel guaio. Lei divenne bianca. Certo è che però non sanno niente di me, altrimenti a quest'ora, il tempo di far salire il caffè, ed avrebbero già fatto un'irruzione. Carla allora pensò che in cucina vi fossero delle armi, ma non era così, Henrì era solo un fatalista. Proprio il tuo stesso cognome eh? Certo, proprio un bello scherzo. Comunque, qui adesso sei al sicuro e vi resterai finché non avrò preso le dovute informazioni. Disse solo questo. Si alzò, prese il portafogli ed uscì, salutandola con il più bel sorriso che lei avesse mai visto. Che si stesse innamorando di Henrì? No, benché i suoi amori fossero stati giudicati da sua madre invero un po' troppo frequenti, lei era ancora in grado di riconoscerli senza il minimo dubbio.

Si decise a prendere il caffè. Davvero poteva fare poco altro. Mentre aveva la tazzina in mano però gli venne in mente che non era stata mai da sola in quell'appartamento. Curiosità femminile o meno che fosse, Carla iniziò a guardarsi intorno iniziando proprio dalla cucina. Era un locale decisamente piccolo arredato con mobili componibili e una tavola in marmo, ma ciò che la colpì fu la confusione che vi regnava e da essa decise perentoriamente che Henrì fosse scapolo, naturalmente nel senso più ampio del termine e insomma che non ci fosse nessuna donna che abitava con lui. Non che le interessasse particolarmente il fatto, solo che con quella supposizione metteva ancora una volta in pratica ciò che fin da piccola sua madre le aveva spiegato con l'espressione "apparentemente illogiche considerazioni da donna". Sin da ragazzina si era accorta come quella fosse un'espressione un po' ridondante, solo che le piaceva ricordarla per giustificare in un qualche modo la sua perenne curiosità sulle vite di tutti quelli che incontrava. E curiosità in fondo era un termine leggero, banale, sciocca espressione che non serviva neanche un poco a descrivere quella sua eterna brama di sapere, di conoscere, fossero solo sciocchezze, ma che per lei erano infinite chiavi attraverso l'uso delle quali, evidente operazione di riflesso, conoscere sé stessa. Così, anche senza pensare a tutte queste dannate implicazioni, continuò a curiosare.

  Il salotto era pieno di libri. C'erano anche altre cose, come il divano sul quale poc'anzi era seduta, una vetrinetta con stoviglie forse per i giorni di festa, sicura eredità di una nonna che lo doveva aver reso felice, ma ciò che più si notava era l'assoluta presenza di libri. Sugli scaffali delle librerie tutti in ordine, sul tavolo, per terra: erano davvero dovunque. Non ce la fece a resistere e così lesse dei titoli a caso. Cerano Moby Dick, la bibbia dei rivoluzionari anche se poi Achab aveva fallito; On the Road, un altro testo sacro di ogni profano dove, neanche a farlo apposta, la rovina del personaggio coinvolse anche l'autore (che il fallimento fosse insito nel concetto di rivoluzione? Non era davvero proprio il momento di pensarci; Siddharta, certo come poteva mancare l'opera che aveva anticipato ogni forma di abbandono del nostro secolo di fine millennio, e chissà se qualche religioso l'aveva mai letta; Ripley's Game, dove ogni ambizione morale veniva drasticamente annegata nel sangue e nell'amore da uomini che per sempre avevano perso la possibilità di essere considerati eroi positivi. E poi un'enciclopedia di pesca, chissà dov'era il fiume che aveva segnato l'infanzia di Henrì, libri sulle armi che certo non potevano mancare, una raccolta incompleta di Mikey Mouse, Os Velhos Marinheiros ou 0 Capitäö de Longo Curso di Jorge Amado, l'eterno ballerino bambino ubriacone sudamericano ed a lei che, sarà magari stata la tensione, iniziava a girare la testa. Svoltò in camera da letto.

  L'alcova di Henrì era sobria ma dannatamente eccitante. Un letto senza lenzuola di raso ma da una piazza e mezzo così da stare più vicini, un armadio in legno, piccolo sì ma naturalmente grande abbastanza da nascondervisi ed il pensiero le piacque subito, un cassettone stile campagna europea e, perché no, mediterranea. La stanza le piaceva davvero ed iniziò persino a pensare come sarebbe stato farci l'amore con l'uomo che la abitava. Chissà se ad Henrì piacevano le vestaglie trasparenti o le mutandine con solo il filo dietro? Era già eccitata, sarebbe stato meglio pensare ad altro. Solo che non ce la fece e si distese sul letto dopo essersi completamente spogliata. Quando poi si addormentò non è da gentiluomini voler sapere se sognò di uomini che non l'avevano più dimenticata o di acacie da bambini nel parco di Rio.

Si svegliò che era già pomeriggio inoltrato. Rimase un attimo seduta sul letto osservandosi i seni e chiedendosi come mai gli uomini li trovassero così meravigliosi e poi si alzò andando in bagno. Si lavò, tornò in camera, si infilò le mutandine, naturalmente quasi inesistenti, ritornò in salotto e si mise a sedere sul divano. Aveva deciso di attendere così Henrì, chissà che non gli fosse piaciuta.

  Alfine Henrì ritornò, era già quasi buio, e tralasciando i conseguenti baci sui seni, chissà se sono io bella o gli uomini deboli, arriviamo a ciò che aveva da riferirle: niente paura piccola, pare sia solo un caso. Restò stupefatta.

  All'inizio non ci credevo neanche io, coincidenza troppo difficile, e intanto la baciava dietro l'orecchio, ma del resto a riflettere bene la polizia avrebbe rischiato inutilmente di farti insospettire con quell'omonimia, e adesso le stringeva i seni con entrambe le mani, infine è risultato davvero essere solo quello che si era dichiarato, un medico proveniente dal Mediterraneo, dalla mia stessa isola lei pensò mentre si sfilava le mutandine.

  Quella sera cenarono insieme nell'appartamento. Naturalmente cucinò lei perché non si fidava assolutamente delle possibilità culinarie del suo momentaneo amante. Niente candele rosse accese sulla tavola però, e non perché non fossero romantici o si considerassero troppo rivoluzionari per farlo, semplicemente a ragione che non erano innamorati e non vedevano nessuna ragione per fingersi tali. Terminata la cena Carla propose ad Henrì, e dagli, mai nessuno che mi chiami col mio nome per esteso, di sfruttare a loro vantaggio quella coincidenza.

  Cessata la fase della paura ella aveva subito iniziato a riflettere, certo, non prima che Henrì avesse terminato di toccarla, ed aveva lentamente ordito un piano a dir poco diabolico. Vista l'omonimia quasi completa, si sarebbe trattato di usare Carlo per rafforzare la sua copertura, un amico, un parente, o il marito stesso venuto a trovarla per lavoro. Ad Henrì l'idea non dispiacque; certo, si tratterebbe di farlo innamorare di te, ma non ti mancano certo le possibilità, piccolo diavoletto scollacciato che non sei altro.

  Se ne andò salutandolo con un bacio, invero non troppo protocollare ma perfettamente intonato sia alla situazione presente che agli intenti successivi.

  Appena in strada il paesaggio della città le parve diverso da quello di poche ore prima: non certo perché si fosse innamorata, e neanche per la felicità dovuta allo scampato pericolo, ma semplicemente perché, da brava professionista, si stava perfettamente integrando con l'obiettivo che il mattino dopo si sarebbe subito messa a perseguire: si sa che la felicità è contagiosa ed un uomo adora gli occhi di una ragazza che sa apparire estasiata quando lo guarda. Tutto questo porterebbe forse a credere che Carla avesse il dono di riuscire a fingere, ma non era così, giusto una sfumatura più in là ma che rendeva tutto dannatamente diverso: lei adorava corteggiare, adorava piacere, e se l'amore per lei in fondo si riconducesse soltanto a questo era un dilemma la cui risposta non conosceva.

  Tutto a posto quindi per lei, tutto giusto, mentre attraversava la città col solito autobus non preoccupandosi neanche di notare se fosse affollato o meno, tutto limpido e chiaro come quando decise improvvisamente di dedicarsi a quella sorte selvaggia, e intanto la città di ferro e vetro correva al di là del finestrino mentre lei era fortemente indecisa solo sul costume da bagno da indossare la mattina seguente ed in fondo anche questa è una sfumatura, sia pure pericolosa, dell'amore.

  Carlo intanto, ignaro della sorte che gli si andava preparando, si era alzato quella mattina in preda ad una sorta di stordimento. Anche a lui il cameriere, in controcanto, aveva accennato dell'omonimia con un'altra ospite dell'albergo, ma lui non ci aveva fatto caso più di tanto, e sicuramente meno del fatto che il caffè non era propriamente bollente: come si vede, le interpretazioni della vita sono spesso tristemente sintomatiche e dimentiche del fascino certo arduo ma abbagliante delle coincidenze. Tant'è, terminò lentamente la sua colazione, si lavò, sistemò le foto sul comodino, di chi fossero poi è meglio non indagare, indossò il suo completo Paname e se ne andò incontro all'inoltrata mattina di Durban.

  Al contrario di un'altra che aveva abitato la sua stessa mattina solo poche ore prima che lui uscisse, Carlo era perfettamente insensibile nei confronti di ogni persona che incontrava per la strada. Aveva è vero da visitare un paio di signori che lo avrebbero aiutato ad inserirsi ed a praticare la sua professione, ma non aveva voglia di incontrarli, che  passasse pure qualche giorno, e così la sua giornata si risolse in un girovagare stanco e quasi senza senso.

  Rientrarono quasi insieme ed il quasi almeno fu sufficiente affinché per quella sera non si incontrassero.

  Niente ottimismo o cos'altro, per carità, quella mattina di fine giugno, in seguito, ci sarebbe stato qualcuno ben intenzionato a dimenticarla.

  Carla si era messa d'accordo con Charles perché la avvertisse quando luì si fosse alzato. Aveva deciso di non prevenirlo di molto poiché confidava nel fatto che il sole dove entrambi erano nati conducesse alla pigrizia e così si alzò non un minuto prima delle nove. Ebbe il tempo di far colazione, di indossare un completo rosa con pantaloncini corti e di profumarsi i capelli prima che Charles le desse il via. Andò ad attenderlo nel corridoio dov'era la sua camera per incontrarlo come fosse per caso. Avendo calcolato perfettamente il tempo necessario affinché lui uscisse, dovette attenderlo soltanto per pochi minuti e poi, sarà stato il seno che si intravedeva perfettamente ai lati della canottiera, oppure il suo modo di camminare, o magari l'isolamento che lui sentiva attorno a sé, insomma Carlo fu subito incuriosito da lei ed accettò ben volentieri di accompagnarla alla spiaggia dopo solo pochi minuti che l'aveva incontrata con lei che fece di tutto, riuscendoci, per fargli credere di essere stato lui ad invitarla.

  Uscirono così dall'albergo una ragazza molto allegra con i capelli profumati di gelsomino ed un uomo leggermente inebetito che per poco quasi si era scordato di indossare il costume da bagno. Almeno quella volta non ci sarebbe stato bisogno né di taxi né di autobus, l'acqua era abbastanza vicina e tutto quello che lui desiderava era di arrivarci prima che lei fosse scomparsa.

  Carla camminava davanti a lui naturalmente ancheggiando ma non era il suo sedere che lo interessava, anche se obiettivamente niente male davvero; non erano le sue parole che dicevano com'anche lei fosse nata su un'isola, e se poi anche fosse stata la stessa la cosa lo lasciava del tutto indifferente; non erano le sue cosce, color madreperla d'accordo, ma in fondo era un'altra canzone; non i suoi sguardi furtivi, la pupilla di lato con gli occhi leggermente socchiusi rivolti verso di lui, anche se lo sconvolgevano più di quanto fosse in grado di sopportare; non il fatto che adorasse le canzoni di Lou Reed anche se questo lo commosse; non, infine, tutto quello che lei era, era stata o potesse essere in seguito, bella, brutta, madre, amante o chissà che altro, ma semplicemente perché.

Non che Carlo non si considerasse affascinante, in fondo ogni uomo pensa di esserlo, ma era improponibile che avesse fatto colpo su di lei alla prima occhiata, che gli fosse piaciuto così tanto da renderla subito disponibile a trascorrere una giornata con lui. Non era neanche valida la supposizione moderata: non esistevano donne che solo per simpatia si comportassero così, non almeno subito, la prassi occidentale di comportamento-sfida tra uomini e donne non presumeva che ciò potesse accadere, neanche a quelli che erano nati su un'isola. Era illogico anche supporre che la semplice omonimia esistente fra loro avesse potuto creare istintivamente una così marcata simpatia.

Tutto quello che Carlo pensava era vero, e quindi non riusciva ad elaborare nessuna spiegazione plausibile. Cercò allora dì capovolgere la situazione: se lui fosse stato Carla perché avrebbe detto sì, e in ultima analisi, perché lui stesso l'aveva accettata? Lo scambio dei ruoli però non gli giovò molto: la natura femminile gli era sostanzialmente estranea come a qualsiasi altro uomo e del resto non riusciva a rispondere neanche per ciò che riguardava lui stesso.

Optò per l'indefinitezza dei contorni.

Nel frattempo il piccolo viale che dall'albergo portava alla spiaggia era terminato e adesso l'oceano si svolgeva davanti a loro. Carla lo prese per mano, la situazione andava facendosi imbarazzante, e lo trascinò di corsa vero quello che alcuni chiamano la fine del continente ed altri il bagnasciuga.

Si sedettero di fronte alle onde. Silenzio.

 Il fatto che ci chiamiamo con lo stesso nome mi affascina, non era vero e lui lo sapeva bene, mi eccita a questo poteva benissimo credere e lo fece iniziando a guardarla con quelli che i gruppi cattolici chiamano "occhi impuri", iniziò a guardare quella che i poeti e gli artisti chiamano bellezza estetica e che lui da allora in poi chiamò semplicemente Carla.

    Intorno a loro la spiaggia presentava evidenti segni di Tirreni lontani, sdraio blu e gialle, bambini vocianti, ombrelloni in tinta unita, palloni da forare e peccato lui non avesse portato i chiodi, madri che facevano l'uncinetto e padri che si bagnavano le caviglie. Un poeta un giorno scrisse una canzone su una donna incontrata a Taormina, la lasciò per ritornarsene a Milano e poi non la vide più, ma la canzone divenne enormemente famosa e lei ebbe per sempre la possibilità di ascoltarla e chissà quante volte pensò di aver sbagliato a farlo ripartire. I giorni di mare sono sempre così fondamentalmente sciocchi ed erronei ma anche forse tanto saggi da porre la vacuità stessa che rappresentano su di un piedistallo e chiamarla filosofia esistenzialista. Ma non poniamo ulteriore tempo in mezzo: si baciarono, si abbracciarono e carezzarono, anche forse un po' oscenamente ed a lui non importava assolutamente più niente di scoprire il perché di tutto questo.

    Le serviva averlo a disposizione pei circa venti giorni fino alla data di arrivo del carico del quale lei era l'intermediaria, e così si inventò bellamente improbabili vacanze e lo pregò di restare con lei finché non fosse dovuta ripartire. Non fu certo difficile farlo accettare, soprattutto dopo che lo tallonò per tutta la serata facendogli poi credere di essere stato lui a convincerla a trascorrere la notte insieme.

Il giorno seguente se ne andarono entrambi in città. L'aria era calda, piena di quell'indefinibile estate sudafricana che i bianchi, razza dannata avrebbe detto lei, tentano in ogni modo di sconvolgere attraverso gli orari e l'aria condizionata.

  Facile dire di sì ad un'estate come quella e così farsi trascinare da lei attraverso l'aria che la sua gonna bianca carezzava. Tutta la giornata trascorse così senza niente di importante, naturalmente per noi, e forse per lei, mentre lui era ancora fondamentalmente sotto choc e di quelle ore in seguito ricordò a malapena il numero dei baci ricevuti.

   Ma passano anche i giorni dell'odio, figuriamoci poi quelli dell'amore. Era il pomeriggio del terzo giorno da quando l'aveva conosciuta e Carlo si trovò seduto al bar dell'albergo in un raro momento senza di lei. Non che gli fosse passato l'amore per Carla, non poteva essere, supposizione sciocca e priva di fondamento, solo che quando lei era lontana riusciva più facilmente a pensare e così tentò un'analisi spassionata, almeno teoricamente, dei fatti che gli erano piovuti addosso come una valanga negli ultimi giorni. Ma prima un Coca-Cola, corretto al rhum naturalmente e, già che c'era, due tonificanti chiacchiere con la cameriera, prima domanda se era fidanzata e l'ultima, beh, lasciamo perdere. Dunque i fatti. Principalmente un pupattolo biondo arrivato come per incanto e che l'aveva letteralmente travolto. Sul perché Carla l'avesse scelto non si soffermò, evidentemente oramai gli bastava che l'avesse fatto. Poi c'erano stati il giorno trascorso sulla spiaggia, le passeggiate in città, quell'amico italiano che lei gli aveva fatto conoscere e che si divertiva a farsi chiamare in modo strano, il dottor Farlaine dal quale si erano recati insieme e che aveva promesso di interessarsi per fargli trovare un posto nel suo ospedale, il cameriere dell'albergo, quel  Charles, che aveva iniziato a guardarlo in modo strano, le  gonne di Carla esasperatamente troppo corte.

         Intanto il bar si stava svuotando causa l'immanente pranzo serale, lei stava stranamente tardando e Carlo giunse alle conclusioni della sua riflessione. Aveva accanto una ragazza  bionda, ben presto avrebbe avuto un lavoro, altrettanto velocemente avrebbe perso lei. Nell'eterno gioco del partire, forse stavolta per averla sarebbe dovuto ritornare. Era una prospettiva che non gli piaceva per niente. Ma del resto aborriva anche al pensiero di non rivederla. Non era un dilemma di facile soluzione, e intanto lei arrivò.

          Ciao piccolo, cucciolotto aveva iniziato a chiamarlo, era decisamente troppo strega, avevano ragione i film francesi dei miei diciottanni, ma non ti preoccupare Carlo, ce l'hanno sempre. Stasera ceniamo al ristorante dell'albergo, andiamo da Henrì, oppure ti vuoi far portare la cena in camera che così fra un piatto e l'altro facciamo le cosacce? Carlo scelse la  terza ipotesi e a questo punto è meglio lasciarli soli che altrimenti la censura poi ci strappa le pagine.

          Ma infine arrivò anche il giorno precedente la partenza, o l'arrivo, dipendeva dal diverso punto di vista di entrambi. La  sera precedente non avevano dormito insieme e così adesso siamo  nella solita camera d'albergo dove Carla si svegliò. Era nervosa. Lo era talmente che non assaggiò neanche il peraltro eccellente cornetto alla crema che Charles le aveva metodicamente  portato sul vassoio della colazione assieme al solito fiore  che quel giorno era una margherita, piccolissima, da prati di  Rio, avrebbe mangiato volentieri quella.

Il cielo fuori era  chiaro, lo vedeva perché dormiva sempre a finestra aperta, maledetti cieli tropicali non era decisamente in vena di romanticismi. 0 forse lo era troppo. Quello sarebbe stato l'ultimo giorno che avrebbe passato con lui. Poi una nuova partenza chissà per dove magari davvero volentieri a casa e poi nuovi Henrì o forse sempre lo stesso, nuove armi, nuove rivoluzioni  nuovi fallimenti e avanti col tango. Carlo era forse l'unica cosa buona che avesse trovato da molto tempo, e pensare che lo aveva abbindolato, amato per mestiere. 0 forse non era così? Che stesse davvero iniziando a piacergli quel ragazzone impacciato, tanto timido ma altrettanto bravo nel fare all'amore,  che adorava il rock ma non aveva mai imparato a suonare la chitarra, che i capelli lunghi li portava fuori moda per coerenza nel disappunto verso le teste rapate, che la guardava così meravigliosamente assorto. Chissà se davvero non si stesse un po' innamorando di lui. Ma probabilmente erano solo strani pensieri da dormiveglia e così decise di farsi una doccia, si sarebbe svegliata completamente e non ci avrebbe pensato più.

            Si era appena insaponata che lui entrò. Sentito che era sotto alla doccia entrò nel bagno per salutarla, lei gli diede un bacio al bagnoschiuma e magari avrebbe preferito che si spogliasse invece di andare ad attenderla in camera.

            Carlo si sedette sul letto di lei e carezzò le lenzuola ancora calde del suo bellissimo corpo. Odiava l'idea che se ne stesse andando ma aveva anche deciso che non l'avrebbe seguita. Probabilmente l'amava, è vero, ma a casa no non ci sarebbe proprio potuto tornare. Così si sdraiò col capo sopra al suo cuscino e naturalmente come sempre in questi casi sognò di tornar bambino. Averla incontrata a Rio, magari da piccoli, ed aver giocato assieme a lei sulla spiaggia con i sassi scuri e pesanti che erano gli adorabili scarti del cuore di ferro dell'isola.

                  Poco dopo lei arrivò trovandolo quasi addormentato e gli sarebbe piaciuto scoprire a cosa stesse pensando ma lo poteva benissimo immaginare, anche perché le infanzie di mare sono tutte uguali. Era profumatissima, non di saponi alle rose o al miele, ma di quel suo inconfondibile odore che gli fece subito aprire gli occhi e ridestare completamente i sensi. Ciao piccolo, ciao amore. Si abbracciarono. Non avevano da dirsi molto, poiché di lì a poco si sarebbero lasciati.

            La sera poi fu, conformemente alle regole, inondata da un volgarissimo tramonto color arancio che non inteneriva i cuori di nessuno dei due. Erano sempre nella solita camera e lei aveva già preparato le valigie. Il loro addio fu semplicemente quello, si guardarono a lungo senza dirsi niente, né che si amavano né che avrebbero potuto rivedersi, entrambe espressioni da fotoromanzi e quindi perfettamente inutili adesso che da decenni neanche i rotocalchi rosa esistevano più. Carla avrebbe voluto dire qualcosa, ma in fondo fece bene a stare zitta; Carlo preferì non fingere e non la volle neanche baciare. Lei così prese le valigie ed uscì dalla camera lasciando la porta aperta ed un uomo seduto sul suo letto. Lui aspettò che si fosse allontanata, si guardò un attimo intorno e poi si alzò per andarsene a dormire, che strano, pensò, non ho neanche una sua fotografia.

            Appena fuori dall'albero, la notte bianca di Durban avvolse Carla che stavolta chiamò un taxi per andare alla stazione. Quando arrivò si diresse subito verso il deposito bagagli dove lasciò le valigie per poi tornare di nuovo verso l'uscita dove c'era Henrì ad attenderla. Quella sera lo chiamò persino Enrico e lui lì per lì neanche se ne rese conto. Salirono sulla macchina di lui e si diressero al luogo dell'appuntamento. Il carico doveva arrivare via mare e loro a mezzanotte precisa si trovarono sulla spiaggia dove erano già ad attenderli altri due uomini che con una lampada stavano facendo segnali alla notte. Carla ed Henrì si sedettero aspettando senza dire una parola. Dopo una ventina di minuti finalmente il peschereccio rispose ai segnali. Poco dopo arrivò a riva una barca, Carla si avvicino per farsi riconoscere e loro diedero il via libera a quelli che ancora si trovavano al largo. Dopo un'altra mezz'ora iniziarono ad arrivare le casse con le armi, sette in tutto, due di mitragliatori, quattro di munizioni ed una contenente bombe a mano. Tutta l'operazione si era svolta nel più perfetto silenzio, solo che, quando Henrì aprì la valigetta col denaro.

            Già, perché appostato dietro le canne della riva, insieme ad un'altra ventina di uomini, c'era Nicola. No, non certo loro padre, ma non ci confondiamo, poiché, come sappiamo, lui non ebbe mai l'occasione di sposarsi. Prima la galera, poi la fuga in Francia ed infine quello schifoso lavoro da mercenario, ma in fondo era pagato bene e se un giorno avesse avuto dei figli avrebbe dovuto pur mantenerli.

            Non appena fu gridato il fatidico alt fermi tutti Henrì lasciò cadere la valigetta, Carla alzò le mani ed anche gli altri fecero altrettanto. Non ci fu così spargimento di sangue e l'intera banda fu semplicemente arrestata. In fondo me lo meritavo, pensò lei, non avrei dovuto lasciarlo. Ma cosa c'entra l'amore con la rivoluzione, signorina, non confonda i ruoli, che già qua siamo ancora in difficoltà nel comprendere come lei abbia fatto ad infilarsi in una sorte così pericolosa e fondamentalmente inadatta al suo carattere.

Ma tant'è, resta il fatto che la portarono in carcere e che, come lei sapeva, non la aspettava una condanna propriamente mite. Resistette per alcuni mesi a qualsiasi crisi di sconforto e conseguentemente anche al ricordo di lui, solo che, quando la tristezza alfine arrivò, non poté fare a meno di scrivergli, non sapendo neanche se fosse sempre allo stesso indirizzo, ma Carlo era metodico giustamente pensò lei ed avrebbe lasciato il nuovo recapito al portiere oppure a Charles. Non una lettera però, non ne aveva la forza, ma solo una cartolina illustrata che poi è in fondo l'unica prova che tutto ciò sia mai accaduto in quanto la potete notare proprio dietro la bottiglia del Four Roses, sì, proprio quella da stupidi innamoratini con gli uccellini che cinguettano ed a questo punto avete due possibilità di interpretazione: o Carla si era bevuta il cervello oppure allo spaccio del carcere non ne avevano altre.