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Un anno a Rio arrivò il circo.

Era la fine del mese di giugno, la scuola era già chiusa da una decina di giorni e tutti noi bambini eravamo in vacanza a casa delle zie o dei nonni. I manifesti apparvero d'improvviso annunciando che il sabato e la domenica successivi ci sarebbero stati due spettacoli al giorno del circo "Gratta" ed era quello il nome sia del proprietario che del clown che poi erano la stessa persona. Sul momento nessuno di noi capì pienamente l'importanza dell'avvenimento, ma furono le mamme a trarci d'impaccio fissando tutte insieme di portarci allo spettacolo del sabato pomeriggio.

Il circo Gratta aveva messo le tende in quella specie di strano golfo che si trova proprio dietro alla stazione dei carabinieri, un luogo bizzarro ed improponibile dove non si sapeva se l'acqua iniziasse o finisse per sempre,  un posto insomma estremamente adatto alla particolare esigenza.

Essendo quella la prima volta, non ci fu per niente bisogno di speciali preparativi né nacquero alcun tipo di ansie, semplicemente perché non sapevamo proprio cosa aspettarci.

Ma una specie di gradevole confusione mentale iniziò ad impossessarsi di noi  non appena fummo scesi dal balzo scosceso che coronava la piccola insenatura, tutto intorno c'erano infinite bandierine colorate e la musica sembrava provenire da ogni parte guardassimo mentre una fila inesauribile di lampadine rosse blu e gialle che si inseguivano sembrava disegnasse il vuoto al cui centro c'era la cassiera il volto della quale non riuscivamo a vedere a causa dell'altezza dove si trovava ma ci restò per sempre l'impresione che nonostante una certa aria distratta fosse enormemente simpatica.

Ma infine entrammo, ed era un luogo di totale luce e meraviglia, con una pedana circolare al centro che era leggermente rialzata ma che a noi sembrava  altissima a causa della nostra  statura di allora ed ancora oggi devo fare uno sforzo di costruzione mentale per capirne le reali misure e cancellare dalla memoria quell'immagine di una specie di torre mozza troneggiante in mezzo al tendone. Io ero seduto in prima fila, e forse fu anche questo il motivo della falsata visione prospettica che mi è rimasta impressa, Nicola e gli altri amici erano seduti sia accanto a me che dietro, inframmezzati dalle mamme e dalle zie. Lo spettacolo iniziò perfettamente in orario ed in realtà tutti i numeri, che poi si sarebbero ripetuti immutati anche negli anni successivi, si potevano dividere in due categorie, la prima e più numerosa quella dove partecipava Gratta, la seconda quella delle poche parti dove lui non c'era.  Gratta infatti era quasi tutto, oltre che clown, anche giocoliere ed acrobata su biciclette moto e trapezi, di altri numeri poi non c'era granché anche per il fatto che in quel magico circo della nostra infanzia non c'erano animali, né selvatici né domestici, e fu anche questa la nostra grande fortuna che ci educò al rispetto delle altre forme di vita. In verità oggi non saprei dire con  certezza quale fosse il motivo della mancanza totale di animali che allora  a noi parve del tutto normale ma che poi avremmo scoperto essere un'assoluta eccezione per quel tipo di spettacoli. Probabilmente ci sarà entrato l'aspetto finanziario, anche se per gli animali domestici come i cani questo non sarebbe certo un motivo plausibile e così senz'altro mi piace pensare che il motivo sia stata una pura e semplice scelta, lui adorava gli animali ed inoltre sapeva di essere il migliore e per i nostri sogni di bastare ed avanzare.

Le due parti dello spettacolo che mi sono rimaste sempre più impresse sono senz'altro quella del suo numero personale con l'abito da pagliaccio e quella dove faceva l'equilibrista guidando una moto. Il numero del pagliaccio era molto particolare, c'erano sì è vero alcune cadute ed anche martelloni di plastica, ma soprattutto era costituito da un lunghissimo monologo dove Gratta raccontava barzellette ed aneddoti che avevano come tema principalmente la politica. Ripensandoci oggi mi appare strano come un bambino così piccolo potesse capire quelle battute eppure senz'altro era così perché tutti ridevamo come matti. L'altro numero, infine, era quello dove Gratta guidava una moto scassata legata al palo al centro della pista e facendoci sopra ogni sorta di esercizio di equilibrismo. Ricordo ancora l'immenso puzzo che ammorbava l'aria alle sgassate di quel piccolo uomo  che percorreva chilometri semplicemente girando, convinto forse che un giorno con quella moto sarebbe davvero potuto tornare da ogni suo amore abbandonato lungo il percorso di quella carovana di camion arrugginiti di un'Italia allora modesta e forse mediocre ma senz'altro stracolma di bambini sempre pronti ad attenderlo e che lo sarebbero stati anche una volta diventati uomini di un mondo senza più circhi da aspettare di nuovo  e con troppe promesse da tendoni sbiaditi mai mantenute durante un tempo fragile di amori e di baci tristi accavallando le gambe sempre di fronte all'ultimo bar della sera.

Ma nessuno di noi ancora sapeva ciò che poi sarebbe stato, quanti nascosti rimpianti avrebbe avuto la memoria di quell'uomo con una patata rossa al posto del naso, e così quel primo spettacolo della nostra vita fu un completo successo. Non solo da allora in avanti sapemmo che cosa aspettarci ma iniziavamo a baramarlo addirittura in inverno e l'ansia di rivederlo di nuovo sarebbe durata fino al termine del tempo che un dio certo pietoso ebbe la possibilità di concedere a quel clown pazzo affinché sprecasse il meno possibile l'esistenza e ci facesse ridere come non mai, insegnandoci allora e per sempre che la vita è di per sé futile ed il senso dell'umorismo l'unico aspetto che la possa rendere almeno un po' più decente, come lo fu allora in quei molti momenti di felicità dentro ad un'arena piena di segatura mentre il vento del mare passava fischiando sopra il telone per andare  ad accarezzare i fiori dei castagni allora che era già primavera.

 

 

 Un altro anno importante fu quello in cui chiuse la miniera di ferro.

La miniera aveva la memoria degli Etruschi ed occupava in tutto 132 operai. La sua chiusura fu inevitabile in quel periodo che vide sia un suo progressivo esaurimento che la crisi europea del settore metallurgico. Non che in realtà a Rio avessero neanche mai compreso bene cos'era l'Europa, solo che l'ente di gestione, vedendo calare a vista d'occhio le commesse e trovandosi fra le mani un'industria che avrebbe avuto bisogno nel medio periodo di sostanziali innovazioni delle tecniche estrattive, decise quasi d'un tratto che il gioco era finito e che tanto valeva davvero mettersi tutti a pescare.

Ogni trattativa si rivelò così del tutto improduttiva, a niente valsero gli accorati appelli dei sindacati e dei Comuni di tutta l'isola, le riunioni in Provincia e Regione, le infinite giornate spese in convegni, neanche servirono a far rimandare di poco lo smantellamento, qualcun altro aveva deciso per noi e la decisione era già stata attuata.

Non fu possibile neanche alcun livello di trattativa per quanto riguardava il ripristino ambientale dei territori che erano stati oggetto di escavazione. A parole sì, ne erano tutti convinti, ed infatti si parlò di innumerevoli progetti, da quelli meno costosi come la realizzazione di un parco minerario a quelli più impegnativi e che prevedevano una ridefinizione dei profili geologici deturpati per restituire a quelle colline almeno vagamente l'aspetto primitivo. Ma non se ne fece mai di niente e quei morsi come d'animale preistorico inflitti alle viscere stesse della terra rimasero scoperti e pulsanti, ed a niente servì neanche la buona volontà delle ginestre che in effetti ci provarono, è innegabile, ma i loro tentativi resero tutto purtroppo ancor più atroce, con i petali dei loro fiori che si spargevano attraverso un mondo d'inferno costellato di grigie pietre pazze, recinti infiniti spezzati dal vento, sogni di espansione industriale abbandonati alla ruggine polverosa e con i tetti scomposti, l'aria greve che sapeva di ferro, le biciclette dei nostri anni di gioventù sulla strada che da lì portava alle spiagge lontane.

Così, nel giro di pochi anni dall'annuncio, arrivò immancabile la chiusura definitiva. Ottanta operai circa furono spostati in attività collaterali sempre collegate allo sfruttamento minerario,  per più di trenta si fece ricorso al prepensionamento e solo il resto venne licenziato. L'aspetto più grave non fu così la perdita dei posti di lavoro quanto la desolante certezza che ogni prospettiva occupazionale era ormai tramontata. Intanto, a sud, ogni arancio cullava le sue arance fingendo di essere sospinto dal vento del deserto vicino per non apparire troppo sentimentale, gli odori a sera si preparavano ad uscire dalle finestre delle nonne in quell'eterna stagione di caldo che durava tutto l'anno, i giardini pubblici come al solito erano pieni di coppie di innamorati, e del ferro, in tutta franchezza, non importava niente a nessuno.

Anche qui così, seppur lentamente, ci si abituò alla differente conformazione economica della società. Per fortuna di tutti ci fu proprio in quel tempo un notevole aumento del flusso turistico, del quale peraltro a tutt'oggi non siamo riusciti a vedere la fine, e fiorirono così innumerevoli attività ad esso collegate. Chi si mise a fare il carpentiere, l'affittacamere o cos'altro, ogni famiglia del nostro paese fu in qualche modo collegata al turismo. Questo fece così nascere a Rio una generazione cosiddetta di bagnini, che tali letteralmente sarebbero potuti essere se solo ci fossero state le spiagge e gli stabilimenti balneari, ma che comunque riuscì in un qualche modo a cavarsela egregiamente pur senza mostrare i muscoli abbronzati ad ogni perfetta madre di famiglia momentaneamente privata del proprio coniuge per motivi di lavoro.

Ci riciclammo tutti insomma, e chi se ne andò, se mai lo fece, non fu mai per motivi di lavoro ma per ben altre aspirazioni. Ciò che poi in realtà ci mancò fu solo il sordo brontolìo dei canali sotterranei, le scorie rugginose sotto agli asciugamani dei tredicianni come sei carina amore, l'arrivo settimanale delle navi dei metalli che si aggrappavano a quell'osso di gabbiano asciutto contro il cielo, nient'altro che il loro molo di attracco, la dolce nostalgia in fondo di un tempo, bello o brutto che fosse, che dopotutto era stato e non avrebbe più potuto restituire le sue attenzioni ad alcun ricordo.

 

 

 Un altro ancora fu quello in cui nacque Gaia.

Fu subito la figlia di tutti noi e ci fece innamorare come non mai, con i suoi occhioni celesti ed il biondo dei suoi riccioli così sempre fuori luogo davanti al mare che senz'altro anch'esso adorò fin dal primo giorno in cui li vide, accompagnati dal traballio del passeggino sui sassi, dal sospetto che senza dubbio prima o poi ci avrebbe traditi, dalla certezza che in fondo andava bene così, senza alcuna possibilità di sbagliarsi perché senz'altro il suo amore andava guadagnato e nessuno di noi sarebbe mai stato in grado di farlo, troppi ricordi per un paese così piccolo come il nostro, troppe poche passioni che non si risolvessero esclusivamente nella contemplazione dell'acqua, a sera, quando ogni cosa sembra improvvisamente risolversi, ogni desiderio finalmente abbandonarci, con lei che sicuramente a quest'ora sta già dormendo, sogni d'oro, amore nostro.

Gaia era la figlia di Rossana e Tiberio, due nostri amici conosciuti fin dai tempi delle elementari di un tempo di paese che è immutabile come l'adorabile noia che costantemente evoca. Nacque in ottobre all'ospedale di Piombino, ed è proprio lì quindi che cominciò la sua storia.

Il primo di noi ad essere avvertito della nascita della bambina fu Nicola, o così almeno ci pare semprechè fosse possibile, e purtroppo i suoi primi giorni di vita furono pieni di guai. L'incompetenza di una dottoressa infatti fece sì che Gaia fosse privata per qualche minuto di quell'aria che ancora lei non poteva sapere come adorasse carezzare l'acqua del golfo quasi a strapiombo sotto l'ospedale per poi infilarsi nei capelli delle vacanze estive di un mondo forse con troppi costumi fosforescenti e radioline a transistor ma pur sempre strapieno tutto il tempo delle adorabili tette della mamma.  E fu così che dovette essere subito trasportata in un ospedale specializzato per la cura dei bambini. Ricordo ancora quando per la prima volta la vidi, già guarita ed in braccio a sua madre al di là della vetrata, aveva fin da allora lo sguardo d'animale furbo e curioso che già sicuramente intuiva come presto sarebbe uscita da lì ed avrebbe avuto ai suoi piedi ogni spazio del mondo e nel cuore tutti i riflessi delle lune sia di mare che di terra.

Gaia poi lentamente divenne grande. Compì da brava bambina tutto il percorso scolastico fin dalla scuola materna ed in generale i suoi risultati furono del tutto normali, ciò che invece non fu mai normale sono i suoi occhi chiari attraverso i quali causava leggeri stordimenti a chiunque la incontrasse, eppure non ci fu mai nessuno geloso di lei, né i suoi genitori né noi, poiché tutti sapevamo, l'avevamo da sempre saputo, che lei non sarebbe mai stata per noi e che i suoi passi avrebbero attraversato sia le lievi colline d'isola da infiniti e spesso irrealizzati sogni di vigne che le pianure degradanti verso le spiagge della terraferma e poi ancora oltre lungo i percorsi di foreste che non esistono più per andare verso nord oppure seguendo la linea delle onde a sud sulle isole della memoria del mondo per scoprire tutto ciò di cui ci fosse stato bisogno e magari  potercelo raccontare durante ritorni che ci sarebbero parsi sempre più brevi ma senza mai darglielo ad intendere, non ti sembra di tornare troppo spesso bambina nostra, in fondo a che ti serve vederci, con lei che forse si sarebbe persino tinta i capelli ed avrebbe adorato cantanti rock a noi del tutto sconosciuti, naturalmente solo per colpa di quello sprovveduto gestore del negozio di dischi, ed intanto sarebbe cresciuta senza alcuna memoria di circhi o di miniere ma con solo un unico, fotografico, ricordo, sua madre seduta sotto alla pergola davanti a casa attorniata da un numero indefinibile di gatti, e quell'immagine le sarebbe stata sufficiente per tutto il resto delle vite che avrebbe incontrato.

 

  

Sembrò durare un secolo l'anno in cui per la prima volta si votò col sistema proporzionale.

Durante tutti gli anni della Repubblica infatti eravamo rimasti sotto alla fatidica soglia di abitanti che ci obbligava al sistema maggioritario. Semplicissimo, non c'era niente da dire, due liste sole, chi vinceva prendeva la maggioranza e arrivederci. Era stato così, forse a causa di un futile pretesto legato alla legge elettorale che fino ad allora non si erano manifestate grandi intolleranze, chi vinceva vinceva e chi perdeva si dava pace. Ma da quel momento in poi no, non sarebbe più stato possibile stare solo da una parte o dall'altra, perdersi nell'assuefante sicurezza che sole riescono a fornire le certezze, le sfumature avrebbero improvvisamente potuto essere molteplici, quasi infinite le sfaccettature che le proprie opinioni potevano assumere, permesse tutte le stravaganze e, in sostanza, a Rio finì la pace.

La campagna elettorale iniziò in pratica il giorno in cui l'ufficio anagrafe comunicò l'avvenuta metamorfosi. C'erano ancora due anni alla data stabilita per le elezioni, ma ognuno pensò bene che prima si comincia meglio è. D'altronde era così atteso quel momento che le consultazioni fra i cittadini erano iniziate già da diverso tempo e così tutte le forze politiche volenti o nolenti si dovettero adeguare pena la completa dissolvenza in rivoli di zona, di caseggiato o addirittura personali di ogni posizione complessiva. Tutto questo, naturalmente, aveva anche i suoi oppositori, chi cioè affermava che il frantumarsi della globalità nelle particolarità era cosa più che ottima ed auspicabile sia adesso che nella previsione di un futuro di completo caos. Come si capisce bene non fu facile vivere a Rio in quel periodo, anche se, dopotutto, moltissimi restarono distaccati da ogni posizione, indifferenti vivendo nei loro certo più proficui sogni di vento, due del pomeriggio del 13 giugno, qualche nuvola in cielo, musica new age di sottofondo, capelli biondi accanto, magari da sempre un romanzo da scrivere in mente.

La primavera dell'anno fatale iniziò così ancor più rarefatta del solito. Ognuno non si sapeva come la pensasse, tutti i protagonisti di quello che i loro figli avrebbero chiamato un futile teatrino, pronti a mutare alleanze e quindi opinioni ma solo fino a quando il momento si sarebbe finalmente avvicinato, le parti della rappresentazione definite, e finalmente non ci sarebbe più stato bisogno di ordire trame complotti o cos'altro che poi alla fine son cose che stancano davvero.

Fu poi una fortuna che le elezioni si svolgessero in autunno perché la pausa estiva fece senz'altro bene a tutti i contendenti che perlomeno per un paio di mesi non ebbero nient'altro da fare che discutere sulla qualità del pesce quell'anno ed ascoltare tramonti ricordando il passato. Luglio e agosto divennero così mesi in cui vivere nel limbo dell'attesa, dimenticando ogni preoccupazione, ogni ideale, ogni sogno di gloria e che se ne andassero tutti a ramengo davvero, diavolo, con tutto questo caldo ogni cosa è così inutile.

Quando a settembre tutto ricominciò era però sensazione comune,  anche se nessuno volle darlo a vedere, che qualcosa si fosse come spezzato, che insomma era così sfibrante quell'attività che c'era da riflettere seriamente se non fosse il caso di mettersi a cercar funghi. Per fortuna ormai mancava poco.

Fu così che arrivò il giorno in cui le liste furono presentate, nel numero di sei, quasi rispecchianti la composizione del parlamento nazionale, con tutti i suoi centri, le sue destre e le sue sinistre, poiché a nessuno venne in mente di presentare liste locali. Poté così iniziare la vera e propria campagna elettorale.

Si usa dire di solito che le campagne elettorali sono lotte senza esclusione di colpi. Da noi quell'anno, almeno all'inizio, fu davvero così. I vari rappresentanti dei partiti erano impegnati giorno e notte nella ricerca di elementi che potessero danneggiare gli iscritti a liste avversarie e, conseguentemente, frantumare l'immagine complessiva del partito rivale. Solo che, essendo in un piccolo paese e conoscendo tutti le magagne degli altri, si valutò ben presto che tale comportamento aveva come risultato complessivo un sostanziale pareggio dal punto di vista elettorale con in più l'aggravante dello sputtanamento globale dei contendenti. Si venne quindi a più miti consigli e, abbandonata la lotta personale, si passò a quella sui programmi.

I partiti di destra e di centro puntarono sulla destrutturazione complessiva di quello che fino ad allora era stato, denunciando come la perenne gestione della sinistra aveva pregiudicato lo sviluppo economico del paese, e candidandosi ad una nuova gestione che assimilasse i pregi del passato senza condividerne i difetti e gli eccessi ideologici insieme alla cattiva amministrazione.

Dal canto loro le formazioni della sinistra puntarono tutto nella propaganda di una necessaria continuità con l'esperienza precedente ma condita di ogni elemento di novità scaturito negli ultimi anni, quali l'ambientalismo, il pacifismo, un nuovo e più chiaro rapporto tra i cittadini e le istituzioni.

Per quanto riguarda Nicola, semprechè fosse presente, bisogna annotare che in tutto questo gran bailamme ci capì poco o niente e che il suo più profondo sentimento in quel periodo fu il completo disinteresse. Decise così, e a suo modo di dire fu a causa semplicemente di buon gusto, di non esprimere mai il suo punto di vista e così lo stesso non poté mai essere annotato né nei registri degli scrutini né in alcun futuro verbale del consiglio comunale. La Storia così, semplicemente, non poté prenderne atto e probabilmente fu un bene per tutti, troppi trucchi da pagliaccio nella sua vita perché le sue opinioni potessero seriamente interessare qualcuno, troppo poco amore nelle segreterie di partito dove senza dubbio l'enorme vastità del suo avrebbe messo tutti in imbarazzo.

Ma per fortuna anche tutto questo terminò, e per sempre. Poco dopo le votazioni infatti una provvidenziale legge del governo centrale innalzò la soglia degli abitanti per i Comuni soggetti al sistema maggioritario e così tutto tornò come prima. Ritornarono al loro posto nelle cantine grondanti di salsedine gli stendardi di partito, riacquistarono compostezza gli argomenti trattati nei bar, ogni sforzo fu finalmente nuovamente rivolto nell'osservazione mistica delle ragazze straniere, il mondo insomma ricominciò a girare lasciando lentamente indietro gli anni assieme alle partenze, ai ritorni ed agli amori dei suoi protagonisti, sempre più fiacchi certo, ma sicuri che l'odore stantio di marciume delle lunghe alghe galleggianti ci sarebbe stato ancora e che non sarebbero mutati mai né il daltonico riflesso delle onde come di cristallo né l'arrotolante sensazione delle sere di tutti i giorni, quando il mondo si comprime e l'acqua cala su di te come la coperta ad uncinetto dai mille colori di lane avanzate che la mamma ti fece un tempo. Buonanotte a tutti, signori.

 

 

 Ma in tutta questa gran confusione d'anni si perdono nella vaghezza tumefatta dei balordi tramonti dell'esistere le tracce di Nicola. Per alcuni versi lui senz'altro era presente ad ogni accadimento, del resto non poteva che essere così. Ma per qualche testimone, come abbiamo visto, solo ad alcuni prese parte di persona. E per altri ancora lui, fin dall'inizio di ciascun fatto, se ne era già andato da un bel pezzo.

Sì, la memoria alle volte può senz'altro essere fugace, ti ricordi un bambino all'asilo e magari poi pensi che sia stato tutta la vita con te mentre il giorno stesso che lo conoscesti lui già non c'era più. Oppure può capitare di immaginare una partenza che in realtà avvenne solo per una breve vacanza ma della quale poi non abbiamo più percepito il ritorno. Oppure c'entra soltanto quella dannata aria che sa sempre di mare e che alle volte confonde davvero le idee, ti fa credere di essere un altro, ti fa sognare cose mai accadute, mentre tutto intorno le onde ritmano un percorso eterno, sconosciuto ed irraggiungibile, come quell'adorabile albero di fico sotto al quale lei era tanto bella ma non riesci più nemmeno a ricordare neanche come si chiamava e la confondi con altre, sempre immensamente adorabili certo, come può esserlo soltanto chi ti bacia con quell'infinito sapore dell'acqua che da quando sei nato hai avuto sempre davanti, ma che noia, davvero.

 

 

 Come dimenticare poi l'anno in cui il signor Corsini divenne presidente della squadra di calcio.

La fabbrica delle insegne Corsini era oramai da molto tempo una delle più importanti del paese e ciò era dovuto forse non tanto allo spessore dei suoi bilanci oppure al numero degli addetti, quanto per una sua presenza quantomai ingombrante ed immanente sull'intero paese causata dal carattere a dir poco esuberante del suo proprietario, il signor Giulio.

Nato da famiglia di operai, il signor Corsini decise fin da giovane che avrebbe riscattato il suo destino, sapendo certo che sarebbe stato difficile e duro, ma che comunque gliel'avrebbe fatta pagare a tutti branco di pezzenti che ci insegnate fin da piccoli che è solo il denaro che conta, che il resto son tutte sciocche idee, certo che ve la farò vedere e prima di quanto pensiate, vi dimostrerò che anche il più umile può diventare potente e allora soffrirete come cani, sì lo farete, calmati adesso Giulio che altrimenti non riesci a prender sonno, hai ragione mamma, smetto subito di pensarci.

In realtà poi gli ci vollero più di trentanni per arrivare a qualche risultato apprezzabile nella realizzazione della sua vendetta, anche se allora, per uno scherzo del destino, si era completamente dimenticato dei motivi che l'avevano fatto arrivare fino a quel punto d'incrocio strano d'esistenza.

Giulio Corsini ebbe il suo primo lavoro come aiutante di un elettricista. Vista la scarsa propensione alla fantasia che già allora lo contraddistingueva, pensò bene che un mestiere vale l'altro e che quindi quel ramo era adattissimo al suo scopo. Il giovane Giulio così, non ancora diciottenne, si mise a sgobbare come un matto finché verso i ventottanni riuscì a mettersi per conto proprio. Di lì a poco avrebbe aperto un piccolo laboratorio e su salendo tutta la scala gerarchica dell'ambizione finché, attraverso innumerevoli vicissitudini, arrivò già quarantenne ad aprire la sua fabbrichetta di insegne ed articoli vari, naturalmente sempre luminosi. Da lì in avanti poi è il repertorio che voi tutti conoscete, la fabbrica Corsini si ingrandì sempre più finché il suo proprietario, compiuti appena i cinquantatreanni in aprile, riuscì a farsi eleggere presidente della locale squadra di calcio promettendo grandi risultati fin dalla prossima stagione.

Per lui fu senz'altro l'apoteosi. Grandi onori dagli innumerevoli tifosi e da allora in poi persino ogni tanto il suo nome sul giornale locale, naturalmente rubrica sportiva.

Solo che, in mezzo a tanta felicità, avvenne il fatto strano a cui prima abbiamo accennato: il piccolo Giulio diventato grande ed a suo modo raggiunto e conquistato il potere, si era completamente dimenticato del motivo che l'aveva spinto sin lì. La vendetta così ci fu ma fu quella del mondo, vinse cioè chi l'aveva spinto a tanto ma era poi riuscito a farlo diventare semplicemente come uno di loro. Ma probabilmente non c'erano alternative, anche se il bambino si fosse ricordato da cinquantenne i sogni di allora non sarebbe cambiato granché.

Lasciamo così quel tempo in cui tutto iniziò al suo destino di bandiere e di sciarpe colorate, in fondo non merita ulteriore attenzione, stanno lì tutti i disastri che ognuno si può immaginare, tutte le sciocchezze le futilità e le arroganze della vita, laggiù, in fondo ad un corteo di automobili strombazzanti per ogni vittoria da quel giorno in poi, con nell'ultima macchina della fila, stanco come una bestia e con gli occhi gonfi dal sonno, forse un ragazzo di appena anni sedici o giù di lì che sta guardando il buio attraverso il vetro del finestrino appannato di fiato e pensando che certo, che sicuro, che diamine, lo vedranno questi signori potenti e ricchi che anche uno come me ce la può fare e fargliela poi pagare. Magari a rate, e senza neanche tanti interessi.

 

  

Ci fu poi quell'anno che vide nascere un numero inimmaginabile di funghi.

Crescevano dappertutto, non solo sul monte Capanne ma in qualsiasi bosco di qualsiasi sperduta collinetta e per tutta la popolazione dell'isola fu una specie di catarsi.

Le prime avvisaglie si ebbero con le piogge di fine agosto e dei primi di settembre e poi, a causa di un'estremamente favorevole congiuntura climatica, la stagione dei funghi continuò fino alla fine di novembre.

Erano perlomeno vent'anni che non accadeva.

I porcini nascevano in luoghi fino ad allora ritenuti impensabili, ed era una continua fioritura, giorno dopo giorno e poi mese dopo mese fino al completo riempimento dei congelatori e dei vasi di vetro della nonna di tutta l'isola.

Si partiva per i boschi ogni giorno della settimana, a seconda delle possibilità, a bordo di qualsiasi mezzo a motore fosse possibile e la gara consisteva nell'anticipare l'arrivo. Ore ed ore prima dell'alba così i boschi erano pieni di cercatori muniti di torce elettriche e nella gran confusione dell'affollamento non si sapeva mai chi erano i vicini, le comitive di amici si dividevano e si ricostituivano con componenti sempre diversi, i legami familiari scomparivano, persino l'amore era dimenticato e le fidanzate ed i fidanzati si riunivano in altre improbabili coppie, con alla fine della mattina così un mondo completamente sovvertito nei suoi legami.

A causa o per merito dei funghi nacquero quindi nuove amicizie e nuovi amori mentre altri rapporti si dissolsero. Furono in molti a sperare che una simile pacchia si ripetesse anche negli anni a venire.

Purtroppo per tutti però, anche per quelli ai quali non piacevano i porcini, quell'episodio di enorme fertilità rimase isolato nella storia. Le fungaie come per magia l'anno successivo scomparvero quasi tutte e non sarebbero più riapparse. Invano ci fu chi continuò imperterrito a ritornare nei luoghi mitici, non ci fu mai più traccia né di funghi né di amori. Gli uomini furono così lasciati nuovamente al loro destino, fra lo spigoloso ciondolare dei bar di ogni giorno della loro vita, con solo l'unico desiderio che tutto prima o poi si dissolvesse per sempre, come quando scoppia il primo palloncino della tua infanzia, semplicemente sfuggendo in un'aria umida di tempo lontano quando i funghi son solo percorsi remoti e l'unico desiderio è quello di avere un giorno una bicicletta bianca. Bon appetit à tout le monde.

 

  

Resta da segnalare infine l'anno in cui gli albicocchi erano stracarichi, le donne incinte estremamente numerose, i bambini tutti bravissimi a scuola, le reti piene di pesci, le lune mai belle come allora, gli affari al bar ottimi, i gelati con uno strano ma estremamente gradevole sapore, tutte le frasi degli innamorati simili a poesie, gli articoli sui giornali sempre interessanti, i traghetti in orario, l'aria sempre leggermente profumata della primavera sul mare, mentre al di là del mondo di tutto questo a qualcuno niente importava.