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    Mi sfilai la minigonna di maglia sapendo che era un gesto pericoloso per il cuore di qualsiasi uomo.

Mi sono chiesta tante volte come facciano gli uomini a cadere in tranelli così banali. Sarà che sono ingenui.

    Gettai la gonna sopra il letto ricordando altri giacigli simili eppure mai uguali, specialmente qui ad Atalaia, dove persino il cotone della coperta sembra stia dormendo di un sonno caldo e appiccicoso come la saliva dei baci lasciata sui capezzoli in questo tempo di metà pomeriggio adesso che è proprio l'ora giusta di farlo. Accanto alla gonna finì poi tutta la biancheria, i pochi golf ed infine ogni altra cosa. Erano solo poche ore che avevo deciso di partire, irrimediabilmente travolta da una decisione improvvisa e che mi faceva venire una sorta di nausea psicosomatica. Avevo il terrore di abbandonare quel luogo, temevo ciò che sarebbe accaduto da lì in avanti, le svolte della vita che non sarei riuscita a controllare, il ritorno terribile delle mie tristezze adesso che lui se n'era andato.

    Averlo incontrato aveva portato un po' di ordine nella mia vita. Anche se non era mio padre, aveva tutte le caratteristiche per esserlo ed in fondo era meglio dell'originale. Come un padre mi dava sicurezza, quella serenità che avevo conosciuta da bambina e che poi mi aveva abbandonata quando ero rimasta sola. La mia infanzia non aveva niente a che vedere con lui, ma in fondo poco importa. Solo che adesso era partito, scomparso, all'improvviso. Ufficialmente per un viaggio, ma erano già diversi mesi che nessuno aveva sue notizie. Forse sarebbe tornato, forse no, non potevo vivere nell'incertezza, dovevo andare a cercarlo.

    Così mi sedetti, guardai la camera che mi aveva ospitata per otto anni come se fossero un'ora, dalla finestra si vedeva la strada principale, a quell'ora poco affollata, erano quasi tutti a far l'amore, oppure a dormire, e c'è chi dice non vi sia differenza in alcune stagioni della vita. Credetti di vedere l'arcobaleno nel baluginio di polvere all'orizzonte, ma non era vero, provai allora ad immaginare le luci radenti di fine pomeriggio su quel golfo d'inferno dove sono nata, ma non mi vennero in mente. Probabilmente è sempre così, quando stai per andartene le immagini della memoria si confondono fino ad annullarsi.

    Presi le valigie e scesi di sotto per andare a sedermi sotto alla tettoia davanti all'ingresso. Lì trovai Jorge-Luis che mi stava aspettando per salutarmi. Allora lo pregai di aspettare insieme a me e, soprattutto, di raccontarmi una storia, così per passare il tempo, così come solo lui sapeva fare, ne conosceva infinite, probabilmente molte erano inventate, chissà quante donne aveva fatto felici con esse. Fu così che conobbi la storia di Filiberto Ariprandi.

 

    Filiberto Ariprandi era un emigrato italiano arrivato all'altezza del 12° parallelo quando tutto il mondo credeva che quello fosse un incrocio fra il Paradiso e l'Eldorado e nonostante tutto avevano ragione. Il suo mestiere era fare il pittore, non sarebbe riuscito a praticarlo per vivere ma lo mantenne come passatempo per tutta la vita. Dopo aver lavorato diversi anni sulla costa ed aver praticato ogni possibilità per racimolare denaro, aveva messo da parte un gruzzoletto che decise di investire aprendo un negozio nell'interno e fu così che arrivò ad Atalaia.

    Filiberto era un uomo alto e un po' dinoccolato, aveva il destino di possedere un volto segnato per sempre dalla medesima età, quando poteva vestiva elegante ma mai in maniera vistosa e una delle poche eccentricità alle quali si dedicava era quella di indossare un basco blu diceva lui da pittore parigino, pratica che in diverse stagioni a causa del caldo comportava una discreta sofferenza che però lui sopportava stoicamente e se pure, per difendersi dagli eccessi, si era procurato un basco identico a quello di lana ma stavolta di paglia, non era ben disposto ad indossarlo e lo faceva solo in caso di emergenza.

    Il suo negozio, che la memoria popolare ha dimenticato nei dettagli a causa dell'assoluta confusione che il suo ricordo evocava, ma doveva trattarsi di una specie di emporio di materiali per costruzione, gli forniva discretamente da vivere e così ben presto lui lo affidò alle cure di un commesso, Roberto, una persona di estrema fiducia, dal volto indefinibile adornato da radi capelli e con un'espressione apparentemente concentrata ma in realtà del tutto sfuggente e perso tenacemente dietro ogni proprio sogno. Roberto non lo tradì mai e, se questo appare un vantaggio in generale, per Filiberto assunse le caratteristiche di un dono del cielo poiché lui poté quasi per intero dedicarsi alla pittura.

    L'atelier, che prima era relegato ad un'unica stanza della sua abitazione, lentamente prese campo e corpo tramutando l'immagine fisica della casa che divenne con gli anni una bolgia inestricabile di quadri e tele. La passione di Filiberto Ariprandi era la ritrattistica ma non disdegnava altri soggetti che però ad essa erano strutturalmente collegati. Di solito usava la pittura anche come gioco erotico e così appena una ragazza gli piaceva le proponeva di ritrarla, all'inizio solo il volto ma poi passava ai nudi ed era così che inevitabilmente si innamorava. Poiché prendeva sempre ogni cosa sul serio voleva conoscere in profondità le sue amanti, forse perché orfano di un infanzia ed una giovinezza piacevoli bramava le loro e voleva che gli venissero riferite in ogni particolare. Passava intere notti a parlare con i suoi amori, andava con loro a pesca, facevano passeggiate, discutevano del mondo e di Dio sui balzi dei campi e nelle osterie del paese. Era così che lentamente i soggetti dei suoi quadri mutavano. Dai volti e dai seni passava a ritrarre i loro ricordi e così sulle tele apparivano bambine coi piedi scalzi, amori giovanili, paesaggi ai loro occhi indimenticabili ed ogni altro ricordo che gli veniva narrato e che lui senza accorgersene faceva diventare suo. Fu così che i ricordi di Filiberto si espansero, divennero enormi e fluttuanti, senza più dimensione geografica o temporale e lui stesso diventò quasi incapace di comprenderne la trama. Solo attraverso i suoi quadri si poteva riuscire a penetrare quel labirinto luminoso, anche se certo lui non facilitava l'opera poiché a chi gli chiedeva il riferimento di un soggetto lui dichiarava sempre che si trattava di un episodio della sua infanzia o che, almeno, così credeva.

    Nessuno, né tantomeno lui, capì mai se i suoi numerosi amori furono il frutto di un animo inquieto oppure di una ricerca inconscia guidata dal demone della pittura che lo pervadeva. La casa si riempì di così tanti quadri che Filiberto un giorno si decise a tentare di dargli un ordine per non essere destinato un giorno o l'altro a smarrirsi completamente in essi. All'inizio provò a riunire le opere facendo riferimento all'amore che le aveva provocate ma ciò si dimostrò totalmente illusorio poiché i suoi amori fin dall'inizio avevano cominciato ad intersecarsi e contaminarsi l'uno con l'altro fino a fargli smarrire completamente ogni riferimento reale. L'unica strada da adottare quindi sarebbe stata quella dei soggetti, da una parte i volti, da un'altra i paesaggi e così via. Ci provò. Occorsero diversi mesi di lavoro ma infine ogni parte della casa assunse una precisa connotazione. Solo che l'effetto fu terribile. Camminare o sostare nella zona dei volti non voleva dire avere archiviato in bell'ordine ogni elemento delle anime che aveva conosciuto ma solo aumentare all'infinito il disagio verso ogni loro abbandono. Passare fra mura di paesaggi era come venire rapiti da un vortice infinito di ricordi impossibile da sostenere. La sua vita divenne un incubo, ogni persona che entrava in casa sua ne usciva terrorizzata. Ben presto Filiberto decise di rimettere tutto com'era, lasciando il caos al posto dell'ordine e così l'armonia fece ritorno nella sua vita.

    Molti nuovi amori sopraggiunsero, e con loro decine e decine di opere. Filiberto fu costretto ad appendere alcuni quadri in negozio poiché lo spazio scarseggiava e lui non aveva alcuna intenzione di accatastare le tele. Fu peraltro un espediente che addolcì l'anima dell'intera cittadinanza e inopinatamente fece aumentare il carico di lavoro di Roberto poiché molti sostavano rapiti o solo incuriositi davanti alle tele. Ma non fu sufficiente e così il pittore prese in affitto una cadente struttura adiacente alla sua abitazione, le fece alcune riparazioni necessarie ad evitare le infiltrazioni piovane e la riempì di quadri. Non avendo porte o confini ben definiti, quel vecchio magazzino divenne così una specie di museo all'aperto e non era raro che Filiberto vi incontrasse occasionali visitatori.

    Tutto questo continuò in espansione geometrica fino a che i suoi capelli e l'immensa mole dei suoi ricordi assunsero una specie di espressione autunnale, fino a quel giorno in cui arrivò in paese una specie di circo di saltimbanchi con un tendone cencioso e strappato, fino a che lui non si recò allo spettacolo e vide per la prima volta Maria.

    Maria Mercedes Libenzo lavorava con il circo solo per evidente casualità non essendo in grado di compiere alcun esercizio atletico o di prestidigitazione ma solo addetta alla vendita di bibite e dolcetti fra le file del pubblico dove lo notò non perché fosse particolarmente bello o abbigliato in modo inusuale ma solo per il fatto che non distolse mai gli occhi da lei dimenticando assolutamente l'arena. Per lui lo spettacolo era lei.

    Maria Mercedes non era neanche lei una donna bellissima, ma per lui estremamente piacevole, aveva dei fianchi pronunciati ma leggeri ed il perfetto ovale del volto incorniciava una bocca dal taglio imbronciato, un naso leggermente aquilino e degli occhi d'abisso. L'abito con il quale lui la vide per la prima volta era naturalmente una minigonna rossa ed un corpetto nero che evidenziava la linea del seno e lasciava scoperte le spalle color del miele d'acacia, mai un abbigliamento da circo era stato più lungamente osservato.

    Quando Filiberto alla fine dello spettacolo le si presentò davanti quasi ansimante chiedendole se voleva essere il soggetto di un suo quadro lei rimase piacevolmente stupita ed accettò subito, in fin dei conti fra una rappresentazione e l'altra c'era sempre un po' di tempo libero del quale poteva disporre ed allora perché non trascorrerlo insieme a quest'uomo, a fare la sua modella. Non c'era dubbio, la cosa la eccitava moltissimo.

    Solo che il tempo stavolta, contrariamente ad ogni aspettativa, non sarebbe bastato. Il circo infatti stava già per levare le tende che Filiberto le comunicò di essere appena all'inizio del suo ritratto. Anche lui si stupì, di solito il pennello gli prendeva la mano mentre adesso si perdeva in inutili svolazzi e precisioni che non facevano parte del suo stile consueto. Allora le chiese di restare, avrebbe potuto raggiungere la compagnia alla prossima sosta, che lo facesse perché quel dipinto per lui era importante e lei accettò.

    Ci volle più di una settimana ancora perché il quadro fosse completato e già allora Filiberto Ariprandi non era più lo stesso. Per tutto quel tempo non si fece vivo al negozio neanche per salutare Roberto e l'unica cosa che faceva nelle pause della lavorazione era ancora quella di osservare lei, mentre dava una mano in qualche faccenda domestica oppure mentre dormiva nel letto che lui le aveva ceduto.

    Quando infine le chiese di ritardare ancora il suo congiungimento con il circo perché aveva intenzione di ritrarla nuda era certo che lei non avrebbe accettato. Non concepiva come quell'essere perfetto potesse donare a lui, umile pittore, l'immagine della sua nudità. Maria invece, senza alcuna esitazione, disse di sì.

    Il quadro che la ritraeva sdraiata sul divano era ancora a metà che Filiberto fu quindi costretto ad innamorarsi di lei. Maria dal canto suo non fece una piega, accettò quell'amore così insolito con la passione e la curiosità con la quale avrebbe assaporato un frutto fuori stagione. Lui le promise che avrebbe dipinto solo per lei, che avrebbe ritratto ogni parte del suo corpo, ogni suo ricordo, ogni suo sogno, ogni suo desiderio, e avrebbe costruito una casa solo per ospitare i quadri della sua anima, un mausoleo dove sarebbe eternamente vissuta e tutti avrebbero potuto ammirarla pienamente, le avrebbe donato le luci delle acque ed ogni vento delle vaste pianure, tutto avrebbe fatto, tutto, pur di farla felice.

    Da quel giorno Filiberto Ariprandi smise di dipingere. Nella sua coscienza assopita si affacciava solo vagamente l'idea di aver posseduto un negozio, quando guardava i suoi quadri quasi si stupiva di averli dipinti, ogni più piccola parte delle sue vastissime memorie si dissolse nel niente, i suoi ricordi cominciavano in aprile, con quella gonna rossa e quel corpetto nero.

    Maria all'inizio fu come affascinata controvoglia da quella passione così smodata. Era abituata ad amori vagabondi e quell'uomo che si era perso dietro di lei, che per lei aveva dimenticato ogni cosa che non la comprendesse la rendeva indubbiamente fiera. Fu così che quasi lo accontentò e si fece amare, gli narrò ogni più piccolo particolare della sua vita, gli confidò ogni suo amore, gli rivelò i segreti più intimi e le paure più orrende, gli disse il nome di tutti i suoi compagni di scuola, il colore e la forma di ogni abito che aveva indossato, gli spiegò i profumi dei luoghi che aveva amato ed ogni paesaggio mai incontrato, gli simulò arrossendo ogni grido di ogni piacere che aveva provato, lo fece guardare nel cristallo dei suoi occhi perché riconoscesse i volti di tutte le persone che aveva conosciuto ed alla fine, a modo suo, forse persino lo amò.

    Filiberto ascoltava tutto ciò che lei diceva come se fosse un oracolo ma non gli venne neanche in mente di trasformarlo in pittura, smise di occuparsi della sistemazione dei quadri, iniziò a vivere solo dei ricordi di lei e della sua presenza nell'aria. Iniziava persino ad assomigliarle, scherzavano su episodi e persone che solo lei aveva conosciuto, considerò ogni suo gusto, passione od inclinazione fino a farli diventare propri.

    In una mattina dell'autunno successivo a quegli accadimenti che avevano trasformato la sua vita, Filiberto Ariprandi trovò una lettera attaccata con il nastro adesivo su di un quadro che ritraeva alcune fanciulle mentre uscivano dalla scuola. Maria se n'era andata perché anche se è vero che tu mi ami io ho smesso di amare te e gli ultimi tempi mi facevi quasi paura con quella tua fissazione di assomigliarmi e poi tutti quei ricordi che uscivano dai tuoi quadri, mi stavano entrando nella mente, così numerosi, confusi, in fondo è stato bello, finché è durato, ciao.

    Filiberto lì per lì non si rese neanche conto di quello che era accaduto. Continuò a vivere normalmente e, c'è chi lo giura, persino ancora la vedeva aggirarsi per la casa. Si era così perfettamente immedesimato in Maria che continuava a compiere i gesti quotidiani di lei fino a quando non si rese conto che stava spolverando i quadri, gesto che il suo allucinante amore mai avrebbe compiuto. Fu allora che staccò la lettera dal quadro e subito si recò da Roberto perché la leggessero insieme e così fosse sicuro che non si trattasse di una normale fantasia. Roberto confermò quello che c'era scritto, lei se n'è andata davvero amico mio. Sul serio? Disse Filiberto e, senza attendere risposta, si mise a controllare il magazzino ed a chiedere notizie sull'andamento del negozio.

    Qualche settimana dopo ricominciò a dipingere come se niente fosse accaduto, si stupì soltanto di alcune modificazioni del suo stile, i personaggi erano più sfumati, la nebbia era un elemento costante dei paesaggi. Ma a poco a poco la vasta inquietudine delle immagini della sua mente fece ritorno, il suo stile riprese lentamente ad essere deciso finché, in un pomeriggio trasudante d'afa di alcuni mesi dopo, Filiberto Ariprandi rientrò in casa, si avviò verso l'attaccapanni, indossò il suo basco di paglia e si rese conto di essere tornato indubitabilmente in possesso di ogni suo ricordo.

    Tutte le amiche di un tempo ripresero a frequentare casa sua, chi per rivedere il proprio ritratto, chi per farsene fare uno nuovo ed aggiornare così la galleria del tempo. Spesso gli chiedevano come mai non ci fosse alle pareti alcuna rappresentazione dei ricordi di Maria, ed allora lui rispondeva vagamente perché non ne conosceva davvero il motivo.

    Fu così che Filiberto decise che avrebbe dovuto colmare quella lacuna mostruosa, quello spazio bianco nella parete accanto al volto di quel suo amore d'infinita tristezza. Prese tela e pennelli e realizzò in poche ore un quadro che raffigurava una platea da circo con una ragazza che vendeva bibite indossando una gonna rossa fluttuante ed un corpetto nero trasparente. Subito dopo tentò altre raffigurazioni della vita di lei ma la memoria non lo sorreggeva, non riusciva a dipingere niente.

    Ben presto Filiberto Ariprandi avrebbe scoperto, peraltro senza provarne alcuna particolare emozione, di non essere in grado di rappresentare la vita di Maria, semplicemente perché nella struggente e boscosa vastità della sua memoria lei non aveva lasciato alcun ricordo.

 

    Mancavano pochi minuti ormai all'arrivo della corriera quando Jorge-Luis smise di raccontare. Nessuno di noi due disse niente. Il vento polveroso impregnato di risate e lamenti faceva dondolare i lucchettini di quelle due valigie occidentali così fuori luogo adesso. Un finestrino per guardare il paesaggio mi aspettava. Tutto, prima o poi, finisce.