Confini
Andarsene per la città, attraverso le sue strade, andarsene al di fuori di essa, verso i campi di trifoglio che sempre le circondano tutte e ricordare poi una terrazza bruciata spezzata dal sole dove la polvere saliva dalla strada ed i rosi avevano sempre bisogno di acqua pur non essendo piante di palude, fiori di fiume dalle rive bianche mentre aspetti o fai finta di farlo che la fanciulla dalle mani belle accanto a te ti riveli finalmente da quale parte mai esista un ponte.
Sveglia. La voce gracchiava un po'. Probabilmente erano da cambiare le pile, oppure la colpa era soltanto del vento smosso dai treni interminabili treni.
- No Roberto, non ti alzare, non te ne andare.
La voce di Elena era un dolce contrappunto al rumore di quell'apparecchio che gli aveva fatto dimenticare il suo sogno, e non era la prima volta.
Elena. Conosceva a stento il suo nome eppure sembrava che lei conoscesse molte cose troppe cose poche cose sul suo conto, ma magari lo aveva scambiato per un altro.
L'unica cosa certa di quei pochi minuti pare alfine ridursi al calcio sferrato alla sveglia petulante ed ai conseguenti baci ed alle conseguenti cosce così almeno, pensò, la mia vita futura avrà in meno il rimpianto di non averle morse a sufficienza.
Poco lontano c'era un'altra stanza, un'altra sveglia, un altro uomo e, guarda strano, un'altra donna. Difficile pensare fosse stato un caso, a meno che non si voglia ridurre una città ad un insieme di case, camere da letto, uomini curiosi, donne altrettanto.
Spezzare ogni indugio è alle volte possibile e Anna lo fece; uscì da quel letto silenziosa come vi era entrata, pochi ricordi, giacchetta blu sulla spalla ed il caffè era, naturalmente, freddo.
Per scendere le scale, si sa, ci vuole attenzione, forse perché già lì i semafori sono incombenti, soprattutto perché può capitare di incontrare un uomo.
Salire in autobus può apparire relativamente facile a chi è abituato alle mattine nebbiose quando i cani pisciano in mezzo alla strada ed il rumore delle porte a stantuffo si diffonde nell'aria piena delle lacrime di dio; lo è certo anche per chi ha i capelli biondi, si è dimenticata di indossare il reggipetto ed ha ancora negli occhi quell'uomo che poco prima le ha rivolto parole di circostanza che adesso si trova all'interno del bar d'angolo; e poi, quella mattina la nebbia non c'era, perché era estate o forse perché si era dimenticata di venirsene via dai campi di patate o forse chissà.
I bar, notoriamente, sono sempre d'angolo. Lo sono perché i baristi possano abbracciare più compiutamente il mondo che da loro dovrà poi essere messo in poesia, lo sono perché gli incroci dei muri favoriscono la posizione dei flipper, luminosi o spenti a accenda dell'umore degli avventori, lo sono, infine, perché l’esistenza di una duplice porta favorisca sempre il distacco, l'eventuale fuga, eppure Roberto non accennò nemmeno per un istante ad andarsene, quando Anna entrò gli rimase appena la possibilità di sorriderle.
Strano a dirsi ma il tempo passò abbastanza in fretta, e non furono certo le ore di quella mattina e neanche quelle di un giorno vicino o non propriamente lontano. Sbocciarono i fiori di alcune improvvisate primavere, quando le uggiose viole fioriscono nei prati di quelli che credono di essere innamorati ma in fondo non se ne interessano granché; passarono sotto ai ponti i tronchi dei platani divelti dalla piena, correndo verso un mare che da tempo non era più misterioso e nelle cui isole mancavano ormai completamente i naufraghi.
Il vestito era troppo stretto. Anna lo aveva detto a sua zia, la candida signora ancora convinta che facendo la sarta ti potesse capitare di confezionare un giorno l'abito per una fata magari insensibile che abitava nelle foreste del nord. Ma se il vestito era forse un po' stretto il giorno era sicuramente largo e sbrigare le formalità del caso non fu difficile: occhi felici, occhi adirati, mani affettuose, parole dette soltanto per essere dimenticate.
C'era
a quel tempo un'altra città nel mondo, una città che non aveva mai
conosciuto la nebbia e dove tutto lasciava immaginare l'immanenza di un deserto,
anche se nessuno l'aveva in realtà mai visto. La città era di pianura, e
chissà se un tempo lo era stata di palude: uccelli che cantavano su palme
stilizzate, vecchie sale da tè dove era affatto difficile riuscire a
sonnecchiare.
Esisteva così un'altra città, e c'è chi sicuramente dirà che esiste sempre un'altra città. Altre camere annoiavano la notte ed i suoi abitanti confusi; altri amori, o forse solo e sempre lo stesso, si dipanavano nei letti dell'ozio dalle lenzuola spiegazzate. Fu lì che Jeanne si alzò non sapendo che era domenica, e le tapparelle abbassate, e la luce d'estate ed il silenzio che davvero le parve troppo profondo. Quella notte aveva sognato un'altra estate, anche se gli idealisti sostengono che poi sono sempre le stesse, una stagione che allora era sì, abbastanza lontana, e per questo trasfigurata dai luoghi dove le rocce del Mediterraneo sono tanto bollenti da poterci cuocere sopra le uova di un pranzo assieme a lui.
Ancora una volta, come da repertorio trattandosi dell’alba, il caffè era freddo. Jeanne non aprì neanche le finestre, frugò in un cassetto alla ricerca di una vecchia agenda, si allacciò le bretelle, salvo poi a dimenticarsi momentaneamente di indossare la maglietta, e scese infine le scale della piccola casa per andare a telefonare al bar.
Sembrerebbe impossibile, ma in quegli strani locali liquidati superficialmente col nome di bar è solitamente possibile anche telefonare, anzi: la perversa disponibilità di quegli apparecchi così apparentemente innocui è soltanto lì che si realizza e non certo sui mobilini di legno laccato posti nell'ingresso di case devastate dall’abbandono del sublime; è nei bar che il telefono acquista la connotazione dell'avventura, fu in quel bar che Jeanne compose il numero di Roberto.
I biglietti rosa fatti di carta trasparente già da tempo erano stati affidati ai destini insondabili delle scatole di acciaio che ricevevano le cartoline, le cambiali protestate e le lettere di amori lontani e non solo geograficamente; postini melanconici gli avevano prelevati da sacchi di iuta che così tanto ricordavano le patate che in altri tempi avrebbero potuto contenere o che forse l'avevano fatto; postini che conoscevano tutti i commercianti della zona e quindi i baristi e così i biglietti rosa avevano già visitato altri bar, e forse non fu un caso, prima di arrivare in quei due dove il loro destino si sarebbe inaspettatamente realizzato.
L'altro bar, indubbiamente bianco, apriva le sue porte di legno stavolta e non completamente a vetri fra le pagine di roccia di una valle bellissima o forse era il sole della stagione di mezzo oppure il fiume che lì in mezzo nuotava o, più probabilmente, il fatto che lì Sandra viveva i suoi giorni lontani e apparentemente senza memoria; o almeno fu così finché il biglietto rosa da lei ricevuto non si trasformò in ricordo e le fece prima cercare con crescente nervosismo il vecchio numero telefonico e poi realizzarlo sul cerchio numerato come fosse la combinazione di una chiave magica.
La linea era occupata. No, non era la linea: stavano telefonando entrambe allo stesso numero e, proprio per questo, stupidamente per questo, Roberto non seppe mai che lo avevano cercato.
H.D., queste erano le iniziali dell'uomo in nero, le iniziali del suo nome, chissà poi da lì dove sarebbero terminate. Occhi di paglia, portamento cinereo: nient'altro era dato di vedere in lui e nient'altro avevano in mente di osservare l'uomo e la donna inginocchiati ai suoi piedi.
Chi ha detto che le cattedrali debbano essere per sempre gotiche confidava che lo spazio del tempo fosse talmente rarefatto da permettere solo alle loro strutture di acquisire bagliori paragonabili a quelli del cielo, ma non fu così, ma non lo sarebbe mai stato e la chiesa di allora era grigia sì come il tempo remoto ma solidamente cementizia nelle sue impressioni da raccontare nei magazzini di polvere di ferro o nei negozi di sete indiane.
Uscirono fuori che era ancora mattina, la macchina lucida
li aspettava e 1'abito di Anna continuava ad essere intollerabilmente stretto.
Le navi e i porti: vi entrano, vi escono, ambedue si innamorano dei propri equipaggi, e tutto questo senza che venga mai detto grazie oppure arrivederci poiché, è evidente, tutto nei porti è definitivo. Chi direbbe mai che gli insani odori che aleggiano sulle banchine possano prefigurare lo splendido abbraccio del mare oppure che i vicoli bui riescano anche ad ospitare amori: niente è normale in un porto, le città anche se vicine sono enormemente lontane e la vita che vi si svolge appare soltanto un confuso ricordo; tutto è sfalsato in un porto, là, dove abbondano le promesse non mantenute ed i baci non sembrano mai eterni.
Le navi abbondano nei porti, questo è naturale; apparentemente meno ovvio è però che un novello sposo salga sopra una di esse senza avere al fianco la donna che poco prima ha promesso di adorare.
Sì, fuggendo da una camera da letto può capitare anche di andarsene da quella sbagliata, soprattutto se poi per le scale un uomo ti guarda e non sai cosa pensa e diventi improvvisamente curiosa di saperlo. Colpa del mattino, colpa del film visto la sera precedente o forse colpa delle piantagioni di caffè e, per estensione, colpa dei bar, di quel bar: Anna non poteva certo dire di non essersela andata a cercare mentre adesso si stava finalmente sbottonando l'abito ed era seduta ed era attorniata dagli invitati increduli o, più probabilmente, distratti.
Venne poi la sera e le luci del ristorante si accesero. Viene sempre la sera e le luci dei ristoranti ai accendono. Tentare di comprendere come tutto così inevitabilmente si ripeta è impresa assai ardua soprattutto perché la vita offre ogni tanto madornali eccezioni, come quella donna dagli occhi belli che continuavano a guardare lontano fatalmente stupiti: si chiedeva qual'era il meccanismo e dove mai risiedesse l'inganno; chissà se avrebbe mai imparato il fascino delle frontiere, la bellezza dei porti. Ma infine passò anche quella notte con i giorni seguenti; passò, come sempre se ne vanno le notti ed i giorni che esse continuamente rincorrono.
Spostandosi anche solo di un attimo, la nostra visuale delle cose cambierebbe e potremmo così osservare, inesorabilmente farlo, un altro bar stavolta con le seggioline lambite dall'acqua dell'oceano.
Dire che il tempo è un'opinione appare forse inesatto ma, del resto, nessuno ci impedisce di accettarla come verità e di tralasciare così innumerevoli anni che non solo appaiono inutili ma la geografia dei quali può solo da altri essere conosciuta o solamente intuita. Roberto era seduto sorseggiando caffè non del tutto eccellente e leggendo un giornale la cui lingua non comprendeva.
Anna in quel momento era probabilmente a casa, occhiali da sole stagliati contro al vetro della finestra del tramonto: non c'era niente che non avrebbe potuto fare, non c'era niente che avesse la voglia di fare, e intanto il vecchio calendario rimasto sempre lì in cucina indicava ormai soltanto melanconicamente tutto il tempo che era passato senza di lui. Giorgio ai alzò dalla poltrona stiracchiandosi ed appoggiando il giornale sportivo sul tavolo, aveva voglia di fare una passeggiata e così uscì andando a nord, il passo sicuro, la stravagante leggerezza con la quale era consapevole che ormai la sua posizione era inattaccabile: lei non l'avrebbe mai più rivisto.
Ma andando a nord non sempre si trovano le strade coperte di muschio, ed è anche inesatto credere che poi tanto facilmente si possa tornare indietro.
Seduta su una panchina, Jeanne, che nel frattempo aveva deciso di ritornare nella città che l'aveva vista studentessa, era completamente dimentica ormai di quella telefonata irrealizzata con la quale lo avrebbe voluto fermare; indossava un abito rosso e forse fu proprio quello che fece sedere Giorgio alla sua stessa panchina. Lì per lì non successe niente ma poi, inevitabilmente, Jeanne si accorse dell'uomo al suo fianco e lo osservò attentamente: indubbiamente lei ed Anna avevano proprio gli stessi gusti.
Se la lontananza potesse essere una cura, se i capelli bianchi potessero servire a raccogliere un maggior numero di indizi questo Roberto non lo scoprì e, con ogni probabilità, il problema non gli si affacciò mai neanche alla mente.
Un'altra sveglia. In Aprile è più difficile alzarsi e lo è anche maggiormente abbandonare in silenzio l'ennesima camera con al muro le foto di lei. Roberto ormai era stanco di fuggire, e lo era anche di molti altri verbi.
Provando a cancellare tutte le esperienze della vita, compresa ogni donna ed ogni loro nome, e lasciando soltanto nella memoria un fotogramma che riprenda il primo albero sul quale siamo saliti da bambini può apparire che tutta l'esistenza sia un albero o che, forse, l'albero, quell'albero, sia in realtà tutto ciò che abbiamo mai cercato. Ormai non c'era altro da fare.
Si vedevano in lontananza le terrazze dei campi digradare come un tempo: quando Roberto sentì il profumo dei fichi che maturavano al sole si accorse di essere finalmente tornato.